Alessio Boni: «Se mi ingannate peggio per voi»
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 50 di Vanity Fair.
Dice che dopo venticinque anni di risposte, adesso gli piacerebbe farle lui le domande. E mentre si accalora nel raccontare, capita che si fermi e domandi: «Quanti sono gli amici veri che potrebbe chiamare quando si sente disperata alle 4 di notte?». I suoi sono pochissimi, da contare sulle dita di una mano. Ma questo perché per il 52enne Alessio Boni l’amicizia è valore fondamentale. Di amicizia e tradimenti parlerà il film in cui lo vedremo a marzo, Non sono un assassino. Prima però, l’attore sarà in televisione, dal 7 gennaio su Raiuno, a interpretare il direttore d’orchestra della Compagnia del cigno. La serie, scritta da Ivan Cotroneo, racconta di un gruppo di giovani aspiranti orchestrali del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano (sono veri musicisti in erba) e del Maestro Marioni, uomo duro e all’apparenza cinico.
Si è divertito a fare per una volta il cattivo?
«Non sono proprio così. Nella serie sono separato ma ancora innamorato di mia moglie, Anna Valle, e butto tutta la mia passione nell’insegnamento. Per questo sono molto severo, mi chiamano il “Bastardo”. Ma dietro c’è una ragione e alla fine i ragazzi capiranno, come io ho capito quel professore dell’Accademia che allora odiavo con tutto me stesso».
In genere però lei appartiene più alla categoria dei buoni che dei cattivi.
«Fare il bastardo è uno sfogo. Ma ho fatto anche di peggio, come l’assassino di Arrivederci amore, ciao. Io non avallo la violenza, ma fare il cattivo è bellissimo: entri in una zona dove non andresti mai. Poi, certo, ci sono cose che non riuscirei a interpretare».
Per esempio?
«Un uomo che stupra un bambino. Me lo avevano proposto anni fa, ma non ce l’ho fatta».
Lei, d’altra parte, ha sempre detto che ama i bambini, desidererebbe essere padre.
«Appena posso vado nelle scuole, in Africa: hanno un sorriso che non trovo altrove, che mi nutre. I bambini credono a Babbo Natale, a quello che diciamo loro. Poi, arriva un’età in cui varcano la soglia, entra l’arroganza, l’ipocrisia».
In gennaio, il 22 a Tortona, lei debutterà anche con uno spettacolo teatrale su Don Chisciotte, personaggio che forse quella soglia non l’ha mai varcata.
«È un fanciullo di 50 e più anni che va in giro per il mondo a lottare contro le ingiustizie, dalla parte dei deboli. Un bambinone, e per questo viene preso per folle».
Chi sarà il suo Sancho Panza?
«Serra Yilmaz, l’attrice turca. Donna, contadina e immigrata».
Che accompagna Don Chisciotte nelle sue avventure.
«Lui ha vissuto la sua vita e poi ha scavallato dopo i 50, inventandosene un’altra, dove diventa un cavaliere errante. Come un bambino, vede i giganti dentro i mulini a vento, i saraceni dietro le greggi: il suo immaginario sovrasta la realtà».
Il protagonista di Cervantes combatte contro i mulini a vento. Lei in passato ha affrontato altri duelli, portando in scena I duellanti, e diceva che la battaglia peggiore è quella che facciamo con noi stessi.
«Sì, sono i giganti dentro di te, gli infedeli che tu odi ma che ti abitano. Riconoscerli bene è la cosa più difficile al mondo».
Con chi o che cosa duella dentro di sé?
«L’intolleranza, l’impazienza. Continuo a combatterci. Penso: io sono così, come fa questo che ho di fronte a non pensarla come me? Lavoro in continuazione su questa parte di me, perché è importantissimo condividere con gli altri la vita. La virtù oggi ha paura di mettere il naso fuori dalla finestra, si vergogna perché fuori ce n’è poca, ma ti devi confrontare anche se non la vedi allo stesso modo. A volte mi sale una rabbia per come uno si comporta, ma mi faccio forza e cerco di rispettare tutto e tutti».
Che cosa le provoca rabbia?
«Chi manca di umanità diventa un robot, e io non voglio avere a che fare con i robot. Quello mi fa salire la rabbia ma mi controllo: non so come la persona sia arrivata lì, quale sia stato il suo percorso».
Parliamo di percorsi più professionali: lei adesso sta girando la seconda stagione della Strada di casa.
«Si riparte, con nuove vicissitudini e indagini parallele. D’altra parte è un thriller, un po’ noir».
Ama i noir?
«Li adoro! Tengono attiva la voglia di ragionare dello spettatore, e sono convinto che il pubblico abbia davvero voglia di capire chi è l’assassino, ma anche – che so – come avviene la fermentazione della birra: c’è il desiderio di pensare. È questo il bello del noir, che ti tiene in punta di seggiola, non sprofondato nella poltrona».
A lei capita di avere paura al cinema?
«L’ho avuta con i film di Dario Argento, i primi zombie: ero un po’ traumatizzatino, anche dallo Squalo. Ahimè, crescendo si perde l’immaginazione, la coscienza diventa più potente ed è difficile perderti nei sogni e nella fantasia: sai che lo squalo è di gomma e non ti sconvolgi più di tanto».
Però è un peccato perdere un’emozione forte, foss’anche la paura.
«L’emozione io adesso la trovo nei miei viaggi e nei documentari che faccio in Africa, ad Haiti… Lì vivi la cruda realtà e ti emozioni perché non c’è finzione. Senza emozioni, è il deserto della tranquillità».
Tranquillità può essere serenità.
«Io ho la serenità della campagna, del mio casale. Serve però uno scopo per portare a termine la giornata, l’assenza di passione mi fa sembrare non di vivere ma di sopravvivere. Questo è il mio carattere, e il carattere è il tuo destino».
È vero che lei voleva fare lo psicologo?
«Sì, anche se non sono mai stato in analisi. Un bravo psicologo può davvero dialogare con un essere umano, dargli una grande forza. Il mio lavoro mi rende comunque psicologo perché entro dentro personaggi diversissimi da me, dal principe Andrej di Guerra e pace al Matteo Carati della Meglio gioventù, da Caravaggio a Don Chisciotte. Per interpretarli scardino me stesso e mi butto dentro quella persona a capofitto. Senza mai dare giudizi: anche se faccio Hitler, devo togliermi da me e amare quello che faceva».
Spesso ha interpretato personaggi d’epoca o letterari: c’è qualcosa nel suo fisico che lo ha determinato?
«Ne avessi avuto un altro, mi avrebbero proposto ruoli diversi. Ma anche Elio Germano fa personaggi d’epoca e interpreta Leopardi. Certo, non mi chiamerebbero mai a fare Totò. La fisicità a volte ti blocca, e non sempre riesci a trasformarti. Adesso però faccio un magistrato e credo che non mi riconoscerà neanche mia madre».
Di che film si tratta?
«Non sono un assassino, con Riccardo Scamarcio, Edoardo Pesce e Claudia Gerini. Tre amici indagano su un caso, ma c’è una talpa, ed è uno di loro. Il tradimento più potente è quello dell’amico, più di quello della donna che ami».
Sicuro?
«Il tradimento di un amore scaturisce dall’ormone. Con gli amici l’ormone non c’entra, non sei fagocitato dalla passione. L’amore esige tutto, è vero. Ma se la tua donna si innamora di un altro, tu stai di merda e però c’è una motivazione. Nell’amicizia no, è come Iago, non c’è altro motivo che l’invidia».
A lei è capitato?
«Sì, qualche anno fa, ed è stato pazzesco».
E ha chiesto ragione del tradimento?
«No, perché se mi tradisci non ti stimo più. E se io non ti stimo non riesco nemmeno ad andare a cena con te. Così come se non stimo una donna, non riesco a innamorarmi».
Con un mestiere come il suo, le capiterà spesso di chiedersi quanto sono sincere le persone che incontra.
«Ormai lo capisco. Certo, posso sempre essere fregato, anche perché io mi do completamente».
Sono passati quindici anni dalla Meglio gioventù, che la rese popolare. La meglio età adulta com’è?
«A me sono piaciuti moltissimo i 40 anni: c’erano conoscenza e saggezza, ma unite alla linfa vitale di un ragazzo. I 50 sono un’altra cosa: vedi quello che hai fatto, ti siedi davanti a un camino con un sigaro e contempli di più. A 40 sei ancora alla ricerca, c’è la competizione, il metterti in gioco. Adesso il caleidoscopio delle emozioni è diverso, come è diverso il senso che do alla vita, la vedo più dal di fuori che dal di dentro, sono più aperto agli altri che focalizzato su me stesso».
Non sembra male. O le manca la linfa vitale?
«No, quella c’è sempre. Ma prima guardavo la vita in verticale, puntavo a ciò che volevo raggiungere, con gli occhi fissi sulla cima della Tour Eiffel. Adesso invece il mio sguardo è orizzontale, ed è meraviglioso scoprire che non c’è solo la torre, ma anche la Senna che le scorre intorno».
Suo padre era piastrellista e lei un tempo diceva che la vita è mettere una piastrella dopo l’altra.
«Sì, è porre mattoncino su mattoncino, non pensare al tetto e all’antenna parabolica ma lavorare pezzo per pezzo. In montagna, l’entusiasmo per la croce che raggiungi lassù in cima è futile: i veri ricordi sono il percorso che hai fatto per arrivare ai 7.000. Ho avuto fortuna a farmi quel culo lì per andare sempre avanti, quando non avevo i soldi per andare al cinema, dormivamo in cinque in una stanza e non potevo mangiare la carne. È stato meraviglioso».
A che punto è il disegno delle sue piastrelle?
«Vedo una bella greca anni Trenta intorno alla sala».
http://www.saluteperme.com/alessio-boni ... -per-voi-2Händeringen hält einen nur davon ab, die Ärmel aufzukrempeln.